Alto Adige. O Sud Tirolo. Il massiccio del Rosengarten rifulgeva di rosso al tramonto, ultimo insormontabile baluardo tra il silenzio delle valli e il resto del mondo. Le sue cime si specchiavano sulla superficie immacolata, smeraldina, delle acque sacre di Carezza, un tempo abitate dalla ninfa Ondina. Subito di là dal lago, poco distante dalla strada del passo, anche i torrioni pesanti e sgraziati – quasi da fortezza – dell’albergo si tingevano di rosso. Di rosso si tingevano le aquile nere, severe, dei suoi decori – vestigia della gloria che fu, quando persino l’imperatore d’Austria veniva qua a bagnarsi – e così pure l’insegna elegante, antiquata, sopra all’ingresso: “Pregiato Albergo – Stabilimento Termale – Tenuta dell’Acqua Morta”.
Seduta alla scrivania del suo ufficio, Patrizia faceva fatica a prestare attenzione all’uomo che le stava di fronte. I suoi pensieri continuavano a scappare fuori dalla finestra; si perdevano nel fulgore dei monti. In questa terra sempre contesa tra Italia ed Austria, tutta fatta di pietre affilate come coltelli, che altro poteva crescere se non storie di sangue e di portenti? Persino l’arcobaleno, donato da Dio agli uomini in segno di pace, si era infranto contro quelle rocce. Uno stregone troppo innamorato – si diceva – ne aveva gettato i cocci nel lago di Carezza, quando Ondina era riuscita a sfuggire alle sue brame, dileguandosi per sempre. Ancor più pazza era la storia del re Laurino e del suo giardino di rose, da cui il Rosengarten aveva preso il nome.
Si diceva che il re Laurino lo coltivasse in gran segreto con la figlia, in un catino nascosto tra le rocce in cima al monte. Il fulgore dei suoi magnifici fiori, quello però non poteva nasconderlo. Così, un giorno, il re del vicino Latemar salì sul Rosengarten, inesorabilmente attratto dal loro fatale fulgore. Lì scorse la figlia del re Laurino che si stava prendendo cura delle superbe rose del padre. Follemente innamorato, la rapì. Laurino amava sua figlia più d’ogni altra cosa al mondo – anche più dei suoi fiori. Quando venne a sapere che era stata rapita, pianse tutte le lacrime che aveva e maledì le rose, che con la loro sfolgorante bellezza avevano svelato l’esistenza del giardino. Un attimo prima di morire, ordinò che non fiorissero mai più, né di giorno né di notte – dimenticando però di menzionare l’alba e il tramonto, quando ancor oggi il monte si tinge di rosso.
Concupite, prese, rapite, dileguate. Tra tante tribolazioni, solitamente, alle donne veniva per lo meno concessa la grazia di sottrarsi; di sparire dalla storia e non esserci più, lasciando agli uomini l’onere di rimanere a combattere e a disperarsi. A lei – a Patrizia – non era stata concesso neppure questo. Era toccato a lei, di rimanere. Senza neppure l’ausilio dell’Acqua Morta per lenire il dolore. Persino l’acqua miracolosa delle terme se n’era andata: di colpo misteriosamente seccata, sul finire della II Guerra, forse interrotta dal peso delle bombe che piovevano dal cielo in quei giorni. Come la ninfa sfuggita al suo lago, l’acqua aveva lasciato l’albergo; e l’albergo, troppo lontano dalle piste da sci, era rimasto senza linfa vitale, senza magia. Semplicemente un peso morto sulle spalle di Patrizia.
Pensare che negli anni ricchi e orgogliosi prima delle guerre, sulla parete maggiore della grande sala delle terme, un pittore locale aveva affrescato proprio il Re Laurino, in una grande figura. Tra i tanti miti locali, per celebrare le glorie dell’albergo, aveva curiosamente scelto questo Re nano, un po’ goffo e geloso. Lo aveva scelto con l’auspicio che vegliasse sulla ricchezza delle acque con la stessa dedizione con cui aveva vegliato sul suo giardino di rose – e lo aveva condannato di fatto a una nuova sconfitta: il Re Laurino era rimasto lì a vegliare sul nulla. I marmi un tempo lucenti e preziosi erano diventati opachi come vecchie ossa. Le belle maioliche si erano tutte crepate, nel silenzio dell’abbandono e del disuso. Su tutto si era posato un sudario di polvere. Guardare nel vuoto della vasca era come guardare nelle orbite vuote di un cranio spolpato.
Forse era per questo – perché nonostante tutti i suoi sforzi condividevano le stesse sconfitte – che Patrizia, il Re Laurino, se lo sentiva vicino e se lo immaginava sempre con le sembianze goffe dell’affresco.
E poi, per lei, quella figura incombente e squadrata nella sua tunica verdastra, aveva le fattezze dei dottori d’ospedale che s’assiepavano attorno al letto di morte di suo marito Antonio, consumato dal cancro e dalla chemio – loro pure riquadrati dentro ai loro camici verdi. E così finiva che il rosso della montagna col sole morente per lei era sempre un rosso di sangue invece che un rosso di rose – la montagna, il Re, il lago, suo marito e le terme erano tutti racchiusi in un cerchio di sangue – quello di Antonio.
Mentre il capo cantiere, seduto di fronte a lei sull’altro lato della scrivania, continuava a snocciolare numeri e problemi, tutti i perché e percome di pochi progressi e di molti ritardi nel tentativo disperato di restaurare la fonte termale, Patrizia si sforzava di riprendere i propri pensieri per le briglie. Il libretto degli assegni con cui ha continuato a giocherellare tutto il tempo è già così sottile. Tutto si riduce a questo in fin dei conti: la sottigliezza del libretto misura il tempo che corre via troppo svelto e le sfugge di mano – o che si ferma subdolamente, spingendola alla deriva nella calma piatta di quei pensieri di sangue, mentre il mondo invece continua a correre in avanti per la propria strada, lasciandola indietro – come questo capo cantiere che continua a parlare anche quando lei non lo ascolta. Forse meglio togliersi il dente e prendere la penna; scrivere quella cifra e firmare.