Edipo Re e Medea: Tutte le Vie per Perdersi

E

Nel 1967, Pier Paolo Pasolini era già oggetto (o, per meglio dire, soggetto) di scandalo e di acceso dibattito, quando, dopo un singolare prologo di freudiana parvenza, un baldo ma spaurito Edipo (nella persona di Franco Citti – uno dei suoi attori feticcio) tentava tutte le vie per perdersi, ma tutte le vie, inevitabilmente, lo risospingevano verso Tebe e verso il compiersi di quel suo amaro destino.

Più in dettaglio, come noto, Edipo si allontana disperato dall’oracolo che gli ha appena profetato l’inevitabilità del suo destino (una splendida scena su cui in seguito torneremo molto più distesamente); il sole battente sembra perseguitarlo e percuoterlo dall’alto; il solo pensiero di tornare a Corinto lo sgomenta. Come riemergendo d’un tratto dai propri pensieri e dal proprio dolore, ne scorge l’indicazione incisa su pietra, e fugge dalla parte opposta. Edipo cammina solitario attraverso il deserto (luogo quanto mai simbolico, per chi vuol perdersi), senza una meta precisa, desideroso solo di andare a cercare la sua fortuna in un qualsiasi altro posto, lontano da casa e da coloro che lui vuole ancora credere che siano i suoi genitori. Lungo il suo cammino, prima di incappare fatalmente –per ucciderlo –in Laio, re di Tebe e suo vero padre, fa vari incontri: tra gli altri, il ridente festeggiamento di un matrimonio; la danza di uno sciamano; una misteriosa e conturbante apparizione femminile.

Soprattutto, incontra vari bivi e crocicchi (ben quattro, per la precisione –più un quinto nel luogo dell’uccisione del padre): ogni bivio rappresenta una scelta, ed ogni volta Edipo ostenta di non voler scegliere, e lascia che sia il caso a scegliere per lui: si copre gli occhi, gira più volte su se stesso, imbocca la prima via che gli capita; ogni volta, però, una pietra miliare segnala allo spettatore del film che Edipo, incredibilmente, prende sempre la stessa direzione, cioè verso Tebe: il Caso si è già tramutato in Fato.

Come noto, tutta questa parte del film non è stata ripresa dalla tragedia di Sofocle, che da subito incomincia in medias res con Edipo sovrano di Tebe e con la peste che già infuria sulla città, ma mette in scena (così come avviene per la fanciullezza di Edipo, per la scena dell’oracolo, ecc.) una parte dell’antefatto mitico della tragedia. Al modo in cui Edipo finisce per capitare a Tebe, Sofocle non dedica che pochi versi:

Per il ritorno misurai le stelle, la direzione della mia Corinto, e mi sbandavo, lontano, dove non vedessi maturare mai lo scandalo dei miei presagi neri. Passo dopo passo, tocco i luoghi dove dici cadde nella morte il vostro re.

Di fronte all’esiguità dell’accenno di Sofocle, tanto più rilevante e carico di novità dovrebbe apparire il trattamento che ne fa Pasolini: rilevante quantitativamente (circa 6 minuti), ma, soprattutto, rilevante stilisticamente, e per molte ragioni, la più evidente delle quali è ovviamente la fortissima iterazione della scena dei bivi. Tanto più, che questa iterazione non è presente nella sceneggiatura, e perciò dovrebbe rappresentare come un “campanello di allarme”, un indizio chiaro e incontrovertibile, e non casuale, di un’avvenuta riflessione e maturazione dell’autore, in corso d’opera, su questa parte del suo lavoro. Tanto più, infine, che questa lunga sequenza è una delle più chiare e importanti indicazioni che abbiamo, per aiutarci ad individuare con esattezza quale tipo di operazione culturale e linguistica Pasolini stesse compiendo con i suoi film mitologici, e in che maniera tali film possano essere inquadrati nel complesso della sua opera.
Ma la critica italiana (a riprova dello scarso interesse e comprensione che ha sempre avuto per i film mitologici di Pasolini) ha quasi sempre totalmente ignorato questa traccia. Tentiamo allora, a verifica di una tale affermazione, una prima rapida rassegna dei principali studi critici italiani sull’opera cinematografica di Pasolini.

La prima vera monografia italiana sul cinema di Pasolini, la scrive Sergio Arecco nel 1972: ma in questo testo, anche frugando bene bene tra tutte le arzigogolate e sperticate smanie ermetiche che lo percorrono, sembra non trovarsi alcuna traccia di questa sequenza. Quando invece nel 1974, Sandro Petraglia scrive il primo Castoro Cinema dedicato al nostro autore (testo ben più leggibile e diffuso del precedente di Arecco), finalmente qualche riga viene dedicata alla questione; ma giusto qualche riga:

Il prologo è un esempio unico nel cinema di Pasolini […] colma anche certe deficienze strutturali, superandole con la bellezza di alcune intuizioni fulminanti. Un esempio tra i molti: l’impossibilità di eludere il destino viene espressa da un gesto ricorrente di Edipo che si copre gli occhi e gira su se stesso per scegliere una delle strade che gli si offrono ai bivi. Inutilmente. Mentre si allontana dopo aver deciso, la macchina inquadra invariabilmente la scritta Tebe. [corsivo nostro]

E si rammenti bene quel riferimento all’intuizione che abbiamo evidenziato (così in tono con l’impostazione tendenzialmente idealistica e contenutistica dello studio di Petraglia), per quando vedremo in dettaglio quanto esso sia inadeguato a spiegare la sequenza in esame.

Il bel libro che Lino Micciché pubblica nel 1975 cercando di dare una lettura complessiva e sfaccettata del cinema italiano degli anni ’60 (e che qui trattiamo per l’ampia attenzione che presta a Pasolini in uno specifico capitolo a lui dedicato), decisamente spicca su molti testi coevi per complessità e modernità di approccio, e per la salutare trasversalità delle tematiche trattate. Ovviamente, a ormai quasi trent’anni di distanza da quando fu scritto, non tutti i giudizi e le valutazioni di allora potrebbero oggi parere condivisibili o accettabili; ma certo è che, in un contesto provinciale come quello della critica cinematografica italiana, che ancora oggi stenta ad uscire dalle secche di un approccio puramente monografico e autoriale e di un’analisi ingenuamente contenutistica, bisogna proprio rendere merito a Micciché (soprattutto nella prima e più generale parte del libro) di aver avuto fin da allora il coraggio e l’acume di affrontare anche tematiche “insolite” come quelle relative ai mestieri del cinema, al cinema di genere e di consumo (anche il più trito), ai rapporti tra il cinema e determinati fenomeni sociali e politici, alla censura, agli ambiti produttivi, distributivi e legislativi, ad un’analisi storico-quantitativa della fruizione, ecc. Ciò che ne risulta è un notevole affresco sociale, economico e culturale di quegli anni; e nonostante Micciché dichiari apertamente, all’inizio del libro, la sua appartenenza politica e la sua non neutralità, questo libro appare, per gli anni in cui fu scritto, insolitamente e felicemente scevro di sovrastrutture e impacci ideologici. Anche il capitolo espressamente dedicato a Pasolini è ricco (come vedremo meglio in seguito) di molte interessanti osservazioni, soprattutto a riguardo di una lettura e sistemazione complessiva dell’opera di Pasolini. Con lucidità, Micciché denuncia senza mezzi termini l’assurdità e l’improprietà di un giudizio puramente ideologico sull’opera pasoliniana (salvo qualche volta indulgere lui stesso, come vedremo, nello stesso errore); allo stesso modo, dimostra di avere chiara coscienza dell’intrinseca difficoltà che un’opera tanto vasta e variegata come quella di Pasolini oppone ad un qualsiasi approccio critico complessivo e non banale:

Probabilmente è a causa di una produzione talmente vasta ed eterogenea […] che mancano studi complessivi, approfonditi ed esaurienti sulla composita opera di Pasolini, che pure costituisce, per ormai quasi unanime giudizio critico, uno degli episodi più rilevanti della cultura italiana del dopoguerra. […] il documento illustrativo più ricco sulla complessiva opera pasoliniana finisce paradossalmente per essere un volumetto francese del 1970, tutt’altro che specialistico, consistente in una chilometrica conversazione critica di 140 pagine, ricca di spunti e di illuminazioni, tra un giovane critico transalpino, Jean Duflot, e il poeta-saggista-regista-romanziere italiano.

Si noti bene il riferimento al «giovane critico transalpino», perché nel 1975 la conoscenza di quel libro brillava come una vera primizia, e, come vedremo più avanti, lo scritto di Duflot è effettivamente un tassello fondamentale per la comprensione del lavoro che Pasolini compie sul mito. Peccato solo che Micciché dimostri, sì, di conoscerlo, ma dimostri anche di non farne alcun uso: di tutte le 20 dense pagine che dedica a Pasolini, solo una scarsa ne dedica ai film mitologici, che se la devono per altro dividere anche con Teorema (1968) e Porcile (1969). A Micciché, i film mitologici di Pasolini si capisce bene che non piacciono, e non si sforza nemmeno tanto di capirli; e così, finendo per l’appunto con l’indulgere lui stesso, in questo caso, in un giudizio ideologico e in un approccio contenutistico, chiude sbrigativamente il discorso:

Basti in questa sede rilevare che, talora ricco di alti risultati estetici e sempre imbevuto di colta e a tratti raffinata intensità espressiva, il cinema pasoliniano da Edipo a Medea […] rappresenta […] una vera e propria rinuncia, uno smarrimento vistosamente (ma vanamente) consolato dal ricorso sostanzialmente assolutorio ad astorici Assoluti e, soprattutto, un acritico (e adialettico) cedimento a un’introversione i cui temi di fondo (la Morte e l’Abisso, il Mistero e il Mito) vengono mascherati da una talora affascinante, talvolta grigia maschera antropologica. […] Sembra insomma che […] il cinema di Pasolini abbia dato il meglio di sé […] poco oltre la metà del decennio, senza riuscire neppure esso […] a superare lo scoglio del 1968.

Come a dire: dopo Che cosa sono le nuvole (1967), il vuoto. E della lunga sequenza che qui stiamo indagando, ovviamente, neppure un cenno…

Due anni dopo Micciché, Adelio Ferrero dedica all’opera cinematografica di Pasolini un libro ormai “classico” e spesso indicato come imprescindibile sull’argomento. La quarta parte del libro si intitola significativamente Il «cinema di poesia» e la riscoperta del mito, e in essa trova posto un capitolo intitolato per l’appunto Riscoperta del mito: Edipo. Anche in questo caso, però, l’attenzione dedicata al lungo viaggio di Edipo verso Tebe, è minima:

Il risultato complessivo, ibrido e composito, alterna sfasature e dissonanze sconcertanti […] a intuizioni e procedimenti di folgorante evidenza poetica: […] il lungo viaggio di Edipo da Corinto a Tebe e la consapevolezza di una irredimibile solitudine, esasperata dai colori accecanti del paesaggio e dai suoni ossessivi degli strumenti a fiato e a percussione; il movimento pazzo e circolare su se stesso: l’esplosione della rabbia e del furore nella sequenza dell’assassinio di Laio […] [corsivo nostro]

Si noti, ancora una volta, quel riferimento all’intuizione, che, come al solito, “salva capra e cavoli”, sospingendo l’intera questione verso l’idealistica regione della pura poesia, cioè dove, in definitiva, non è più suscettibile di alcuna discussione e approfondimento. E pensare che proprio Ferrero (come vedremo) poco più oltre il passo summenzionato, fa una citazione che avrebbe ben dovuto metterlo “sul chi vive”…

Ormai nel 1979, Antonio Bertini scrive un volume che, almeno a giudicare dal titolo, sembra promettere un approccio più originale rispetto a quello più comunemente monografico sull’autore: promette, ma non mantiene. Si limita infatti a scegliere alcuni testi di Pasolini di argomento linguistico o tecnico-stilistico, e a farne una blanda (e non utilissima) esegesi; metodo, questo, si badi bene, non apertamente dichiarato, e che fa sì che, in definitiva, in un libro del 1979, possa ancora quasi sembrare che Pasolini abbia girato in tutto tre film: Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e Il Vangelo secondo Matteo (1964); questo perché se Pasolini fa le sue osservazioni sul suo film X, Bertini si guarda bene dall’avventurarsi da solo ad allargare la riflessione o a fare un confronto col film Y. Inoltre, quella che sarebbe dovuta essere la novità più interessante di questo libro, cioè un’attenzione alla tecnica del film, è in realtà una delle promesse più fortemente disattese; per di più, Bertini fa spesso un uso decisamente improprio della terminologia tecnica, il che fa sospettare che in realtà non conosca neppure tanto bene la materia. Né tralascia di dare il suo contributo a certo biografismo e/o psicologismo che, almeno col senno di poi, sembra francamente arricchire ben poco il dibattito critico:

Se è vera l’ipotesi che anche gli scritti teorici sul cinema di Pasolini non rappresentano che un ulteriore travestimento (sotto forma saggistica) delle ossessioni personali del poeta, non si può non includere nella metafora del doppio essere della sceneggiatura anche il discorso sulla diversità sessuale di Pasolini [corsivo dell’autore]

In questo contesto, i film mitologici di Pasolini vengono a malapena citati, e quasi esclusivamente per le musiche: il percorso di Edipo verso Tebe, ovviamente, neppure menzionato.

Così come non ve n’è traccia nel bel libro pubblicato nel 1991 a cura di Annamaria Cascetta (e tutto dedicato allo studio del recupero in epoca moderna del registro tragico e del modello concreto della tragedia classica), che pure contiene due interventi interessanti proprio sul lavoro di Pasolini. Mentre nel secondo Castoro Cinema dedicato al nostro autore e scritto nel 1994 da Serafino Murri se ne parla sì, ma solo in forma di sinossi del film.

Intanto, sempre nel 1994, Guido Paduano, in un suo libro molto denso, rilegge un po’ tutta la tradizione moderna di Edipo, cercando di coniugare un approccio freudiano moderno e non banale con un maggior rigore filologico e letterario: e qui un capitolo su Pasolini non poteva mancare. Da esso si arguisce come Pasolini sia in sostanza partito dalla lettura freudiana della tragedia (con tutto quanto ne consegue in termini di tematiche della rimozione del desiderio, di volontà di non sapere, di senso di colpa, ecc.) ma con alcuni “spostamenti” significativi rispetto all’originale greco:

Lo splendido –e spesso sottovalutato –film di Pier Paolo Pasolini presenta una variazione radicale, nei confronti sia del modello antico, sia della tradizione da esso rampollata, investendo di coinvolgimento libidico anche il parricidio. Nell’incontro al trivio, Edipo consuma un vero piacere del sangue, della crudeltà, ma soprattutto della ribellione e dell’esautorazione; e Laio a sua volta non è certo ucciso casualmente, ma perché riconoscibile come padre, incarnazione e simbolo di quell’autorità che trova un’efficacissima forma visiva nella corona «alta come una torre».

[…] è tuttavia da notare il fatto, pure più che evidente, che l’acquisizione dell’opposizione freudiana tra padre e figlio è compiuta da Pasolini introducendovi una decisa faziosità a favore del figlio […] Trasportato sul piano generale e simbolico, esso comporterà che non è tanto il figlio a insidiare i possessi del padre, come voleva, nella sua apparenza neutra, l’ottica patriarcale di Freud, quanto piuttosto il padre a voler respingere ed eliminare il figlio, sentendosene insidiato.

La trama dell’incesto si svolge invece per vicende e volute più ampie, costituendo il Leitmotiv principale del film.

Alla fine del racconto [del testimone], un abbraccio violento finisce addirittura, stavolta non nella sceneggiatura ma unicamente nel film, con l’apostrofe maledetta: «madre!» Un altro spostamento del film rispetto alla sceneggiatura suona altresì come un clamoroso spostamento del materiale sofocleo e del carattere neutro che esso possedeva: la tranquillizzazione di Giocasta sul fatto che «quanti uomini non hanno fatto l’amore, in sogno, con la loro madre?», è anticipata fino a precedere il racconto di Edipo, e diviene una scandalosa avance.

Però, anche senza voler entrare nel merito della giustezza o meno di queste letture freudiane, leggendo questo capitolo di Paduano dedicato a Pasolini, una grossa limitazione nel metodo di analisi balza subito all’occhio “dell’uomo di cinema”: in tutti questi paragrafi dedicati a un film (non a un testo letterario o teatrale, ma a un film fatto di immagini) ciò che veramente manca è proprio il cinema! Il solido piglio filologico di Paduano (molto salutare nella sua applicazione al freudismo e all’interpretazione dell’originale greco), porta lo studioso –difficile dire quanto consapevolmente –a indagare la sceneggiatura (del resto continuamente citata) molto più che non il film in sé e per sé; e anche nelle rare occasioni in cui si parla del film e non della sceneggiatura, non se ne parla mai nei termini dei suoi specifici mezzi di rappresentazione filmica, ma in termini in realtà contenutistici, legati a ciò vi viene “detto o fatto dentro” dai personaggi, a ciò insomma che può essere in qualche modo pensato in termini di dialogo, di parole, o, perlomeno, di teatrale didascalia –ciò che è, in definitiva, il normale territorio di lavoro di Paduano. E anche in questo caso, comunque, il percorso di Edipo verso Tebe viene liquidato rapidamente, su basi psicologiche:

A me sembra che esso [il gesto di scegliere le vie a caso] ponga piuttosto in evidenza lo sradicamento di Edipo, l’infelicità della solitudine, rappresentabile in termini fisici come assenza di un’attrazione magnetica che orienti per lui la forza che lo respinge da Corinto.

Insomma, un sentimento. Un qualcosa di non troppo lontano dall’ambito di quella «intuizione» che altri prima di lui (come abbiamo visto) hanno scomodato per liberarsi in fretta di questa sequenza…

Nel 1996, un altro filologo e grecista, Massimo Fusillo, prima discepolo e poi collega di Paduano, riparte dalle posizioni del maestro per sviluppare in maniera autonoma lo studio del mito e della tragedia greca in Pasolini, questa volta non limitandosi al solo Edipo, ma affrontando il tema in maniera globale e organica. Il retroterra culturale di Fusillo è in considerevole parte ovviamente analogo a quello di Paduano, e, di conseguenza, per taluni aspetti, il suo approccio all’argomento è simile a quello del maestro: forte piglio filologico; stessi riferimenti culturali; stessa attenzione alla tradizione moderna che precede Pasolini, e, in particolar modo, alla tradizione freudiana e psicanalitica; una certa propensione, anche qui, a perdere di vista il testo filmico vero e proprio, per considerare invece la sceneggiatura, i contenuti, le intenzioni dell’autore, il suo contesto culturale. Tuttavia, non si può però negare un deciso salto di qualità: la confidenza di Fusillo col linguaggio cinematografico è senz’altro maggiore di quella del maestro, e maggiore è l’attenzione che vi dedica; soprattutto, si rivela molto proficuo il maggior bagaglio specificamente antropologico che impiega nell’affrontare l’opera di Pasolini: ed è proprio per questo che, sullo studio di Fusillo, dovremo tornare più volte. Ma vediamo intanto cosa dice di questo annoso viaggio di Edipo:

Cecità e volontà di non sapere sono i nodi semantici che dominano ancora nella sequenza successiva che narra il viaggio di Edipo da Delfi in direzione di Tebe; per ben quattro volte, come un Leitmotiv simbolico, viene ripetuta la scena in cui Edipo, di fronte a una pietra che indica la direzione «Tebe», gira su se stesso coprendosi gli occhi […] recarsi […] a Tebe non è dunque frutto di riflessione lucida, ma di una cieca attrazione […] Questa scena è spesso citata come prova di antiintellettualismo, ma è una lettura che si addice meglio alla versione che era prevista dalla sceneggiatura, dove Edipo sceglie fra le due direzioni, Corinto e Tebe [sic], tirando una monetina. Il girotondo su se stesso con gli occhi coperti della versione filmica sembra invece visualizzare, in modo ossessivo, l’angoscia e la solitudine di Edipo […]

Una lettura, dunque, vicina a quella del suo maestro. Che dirne? Che dire, per concludere, alla fine di questa rapida e parziale carrellata critica, di questa e delle altre interpretazioni consimili che abbiamo visto (per tacere dei silenzi colpevoli di altri)? Non necessariamente che siano interpretazioni sbagliate, o del tutto impossibili, anzi: sicuramente queste interpretazioni spesso evidenziano dei livelli di lettura assolutamente legittimi del testo filmico pasoliniano; colgono delle sfumature di senso che sicuramente contribuiscono a creare l’atmosfera generale dell’episodio e che altrettanto sicuramente contribuiscono a orientarne la fruizione da parte dello spettatore. E allora?

Il punto è, a nostro avviso, che esse non sono sufficienti; costituiscono in sostanza un’occasione sprecata di indagine critica; un sorvolare distrattamente su una porta che l’autore aveva lasciata socchiusa per penetrare nella sua opera. Questa iterazione, infatti, è un mezzo stilistico forte, una sorta di figura retorica, attraverso cui Pasolini guida la metaforizzazione del tema della trasformazione del Caso in Fato. Ovvero: se Edipo, per finire proprio a Tebe in bocca al suo destino, avesse dovuto una sola volta lanciare una monetina, avrebbe avuto ben il 50% di probabilità di imboccare proprio quella strada; cioè una probabilità molto alta, che avrebbe reso molto debole la contraddizione tra Caso e Fato; e se la contraddizione è debole, allora il Caso non può essere eliminato, scacciato, reso nullo dal suo polo opposto. Invece, nel film abbiamo ben quattro sorteggi, più (non dimentichiamolo) un quinto (tutto implicito) sul luogo dell’uccisione, che qui non è tanto (o non solo) una strettoia quanto un ulteriore bivio: ovvero, non semplicemente cinque sorteggi, ma, retoricamente parlando, un’anafora, un catalogo di sorteggi, qualcosa che evocativamente tende all’infinita ripetizione. In seno a questa infinita ripetizione, le possibilità di finire proprio a Tebe si dimezzano ad ogni sorteggio, e sono perciò scarsissime, infinitesimali: eppure, contro ogni probabilità (ovvero contro l’esistenza del Caso), Edipo va a finire proprio dove il destino vuole, dove vuole il suo Fato; la rappresentazione del Caso si è trasformata in rappresentazione del Fato.

Ma allora, a questo punto, pare piuttosto evidente che, ai fini specifici di questa trasformazione del Caso in Fato, non è tanto significativo il metodo del sorteggio (monetina, occhi chiusi, girotondo, morra cinese, ecc…), lo stato d’animo di Edipo, o il suo pianto, quanto piuttosto l’oggetto della (non) scelta: cioè, la strada da percorrere; una strada, un itinerario, che, quanto più lo si vorrebbe libero e non causato, non motivato, casuale, invece è tanto più non libero e fatalmente determinato. La strada dunque incarna la contraddizione stessa che rende possibile la trasformazione del Caso in Fato; più precisamente, la strada è la metafora stessa di questa trasformazione.

Né nell’originale greco, né nella precedente tradizione mitologica si presta molta specifica attenzione ai modi e al percorso che hanno guidato i passi di Edipo dall’oracolo a Tebe; eppure qualcun’altro vi aveva già prestato attenzione prima di Pasolini; un qualcuno di estremamente importante per tutto il secondo novecento italiano: Cesare Pavese.

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David Ballerini

David Ballerini è uno scrittore e regista cinematografico pluripremiato. Al suo attivo ha due libri: Steadicam: Una rivoluzione nel modo di fare cinema e Edipo Re e Medea di P.P.Pasolini: Mito, Visione e Storia di due Sfortune. Sua la regia e la sceneggiatura del film Il Silenzio dell’allodola ispirato alle note vicende del prigioniero politico irlandese Bobby Sands.

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