Il Giovanni di questa poesia è una persona realmente vissuta ma che non ho mai conosciuto se non attraverso i racconti di altri: uomo semplice, gran lavoratore, padre di famiglia. Per campare la moglie e le tre figlie, aveva dovuto lasciare il paesello in montagna e accettare lunghe trasferte all’estero, in zone remote e inospitali. Lavorava ai pozzi petroliferi. Il coraggio e la dedizione semplici con cui aveva saputo allontanarsi dal proprio Paradiso, mi sembrava che potessero rivelare una verità più profonda.
Dal tuo scarno deserto laggiù, caro
Giovanni, saluti per te, felice
con poco: la sabbia che pesti rena
non è di spiagge
ridenti. Sotto la volta del cielo
quanto piccola morte d’un di noi
senza che nulla risolva; ma fresco
di forno il pane,
ridenti le stelle, l’acqua gelata,
i frutti sui rami per sempre conosci,
lieto Giovanni: la vita in un breve
orto fiorito
sta come l’ape nel cuore del fiore;
ecco, tu porti parole di vita.
Grandine, grandine grande, Giovanni,
invece calpesta
il nostro giardino quassù: solo terra
sconvolta ci resta di quella nicchia
felice —piccola piccola e nostra —
dove fiorimmo
senza sudore né doglia di parto.
La notte è la porta del cielo: l’uomo
felice vive vicino alle stelle;
costellazioni
di lucciole in terra stendon sui campi
un velo di cielo nell’orto concluso:
nell’orto concluso portan gli allegri
bisbigli delle
loro celesti sorelle; vi portano
arcani i fitti disegni del cielo…
E vegliava sopra noi la luna, sopra
la calma piatta
del mare assopito e silente, chiara,
amandoci stretti, sciolti nudi e puri
nel tiepido abbraccio dell’acqua, fino
a che Morte non ci
separi… Ma se un amore, Giovanni,
perde i suoi anelli, cosa vuol dire?
Che il Paradiso perduto è perduto
per sempre, o forse
tutto rinasce da nulla? Rammenti..?
Tu, padre severo, ridente in riva
a quel mare, bagnavi la fronte ai figli,
per prepararli
al gelo più grande dell’acqua. Tu, poi,
partisti. Cambiasti l’odore stucco
del cocco con l’acre negrizia arsa
dal greggio; sabbia
secca di deserto invece che rena
marina: ai pozzi lontano costretto,
in tasca portavi il tuo regno; vivevi,
a vivere i figli,
una vita contratta da zecca. Pieno
ora di buche, Giovanni, è il tuo scarno
deserto: empiamo le buche col sangue
nero. Con fare
di stanco pendolare pellegrino
tra coltre di grigia umida nebbia-
la gente assopita, le teste senza
forza che ciondolano
(sotto l’ispida barba l’occhio
rosso del controllore spia senza
provare pietà quel gran affollarsi
al treno, sì come
di bestie vogliose al macello) – a bere,
tra gli altri suoi pari, Giovanni avanza,
parla senno e dice: gli anelli sono
ruote d’aratro
alla vita del seme; un seme che muore
è un seme che vive, nell’orto concluso.
Ma quest’orto concluso cos’è? Solo
un inganno vecchio
di maghe; un miraggio sempre che fugge
dell’arcobaleno; un laccio, una redine
d’oro per te: mai nessuna siepe,
nessuna chiostra
di monti né riva di mare salva
i semi dell’uomo dal lungo mangiare
e succhiare del tempo. Ma è nel tempo
lieto, fiorito,
che l’orto concluso sempre germoglia
da te: per l’uomo felice nel tempo
di sotto al lento girare gentile
ch’è della pallida
luna, sotto al mormorio stellato
dei cieli, ogni più scarno deserto
è sempre come fertile terra, orto
ovunque fiorito
per te. Adesso le buche son vuote:
Giovanni ha detto parole di vita;
resta il silenzio. Domani un virgulto
germoglierà.
Ode saffica
(1995 circa – 2003)